Jannik Sinner Re di Melbourne, due volte. E king di New York, una.
IL PERSONAGGIO
Tre slam fra il 2024 e il 2025,
con il su e giù dal carro
in balia dei trionfi e
dei bollettini vampireschi
degli addetti ai lavori (e ai livori),
perché l’italiano medio,
per natura, a un buon sospetto
brinda sempre a champagne.
Li adora fin dall’epoca del divo Giulio Andreotti
e del suo «a pensar male si fa peccato,
ma spesso si indovina».
Di: Roberto Beccantini
Jannik Sinner. Ci mancavano solo la pomata al Clostebol, le ombre di doping e il «rovescio» della Wada, tre mesi di squalifica «patteggiata» e più non dimandare. Dopo
l’anca, che sembrava il problema più serio, i giramenti di testa, i virus vaganti e seccanti, la tonsillite olimpica. Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, mi rifugio, «sum ergo dubito», nel nocciolo della confessione: «a mia insaputa», tra doppia positività, avvocati londinesi super-pagati, mesi di silenzi omertosi, innocenza certificata da luminari del ramo ma non da Nick Kyrgios, leader dell’opposizione.

Sto scrivendo di un fenomeno e, per fortuna di noi inesperti, i fenomeni non sono facili da spogliare neppure per gli esperti. È un italiano di confine, nato il 16 agosto 2001 a Sesto Pusteria, in provincia di Bolzano, Trentino-Alto Adige, là dove il tedesco è, come minimo, «lingua matrigna». Una nuvola rossa che ci ha reso familiari cemento, erba e terra; Australian, Us open e Atp Finals di Torino a parte, ha contribuito a riportare in patria, dopo 47 anni, la Coppa Davis (2023, 2024). È il numero uno del ranking mondiale.
Pel di carota è già famoso per quello che ha vinto, popolare per come lo fa, misterioso per come evade dal carcere dei limiti pur di farlo
(«Una fragilità su cui riflettere, e se possibile da eliminare; firmato, Stefano Semeraro, da «La Stampa» del 25 luglio 24, un «secolo» fa). Appartiene alla schiatta degli Eletti - Federica Pellegrini, Valentino Rossi, Alberto Tomba, Gianmarco Tamberi - che abbiamo adottato di successo in successo, felici di venirne travolti. «Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi», ammonì Bertolt Brecht. Però, detto e scritto fra di noi, se ogni tanto ce ne capita uno, evviva: sarà adottato e vezzeggiato.

Non è uno «sborrone» alla Tomba, alla Vale o alla Gimbo, ha rinunciato al festival di Sanremo, ha cambiato allenatore (da Riccardo Piatti alla coppia Simone Vagnozzi-Darren Cahill), passaggio delicato, doloroso e cruciale. Ricorda la migrazione di Pietro Paolo Mennea da Franco Mascolo a Carlo Vittori, dal collegio di Barletta al penitenziario di Formia.

Leonardo Iannacci, giornalista e scrittore bolognese, lo ha raccontato brillantemente in «Sinner. Una faccia pulita» (edizioni Minerva, 2024). Lunga è la strada, per Tipperary. Che non significa essere spaventati e/o arrivati. Che non significa sentirsi compiuti. Al contrario: significa non abbassare la guardia. Mai. La massa detesta le mezze misure,
adora gli eccessi, o tutto o niente. Jannik, per ora, le sta dando tutto, o quasi, e quel «quasi» è legato alle sconfitte al quinto set con Carlitos Alcaraz a Parigi e con Daniil Medvedev a Wimbledon, ai ritiri che sono secchiate ai sogni, suoi e nostri, nostri perché suoi. Rudyard Kipling ci ha sempre rammentato come sia fondamentale, nella crescita, trattare la vittoria e la sconfitta, questi «impostori», allo stesso modo, con le stesse distanze.

Più Cristiano Ronaldo che Leo Messi, più scultore che pittore, «JS» (all’americana) sa che deve migliorare - nel variare il repertorio, per esempio - e che il tempo è galantuomo con gli audaci, non con i pigri. In un periodo in cui il calcio, sport di squadra per eccellenza, invoca le eccellenze dei singoli, bastonato da un Europeo e una Nations League che lo hanno lasciato in braghe di tela, l’effetto Sinner ha spinto il tennis verso picchi di clamorosa risonanza. Sinner, punta di un iceberg che può godere delle lune e del fioretto di Lorenzo Musetti; del martello e della sfiga cosmica di Matteo Berrettini (a proposito di infortuni, fidanzate, immersioni ed emersioni); della grinta gardiniana di Lorenzo Sonego; dei progressi di Flavio Cobolli, Matteo Arnaldi e Luciano Darderi. Per tacere di Simone Bolelli e Andrea Vavassori, manifesto del doppio, e lo «smile» guerriero di Jasmine Paolini. La meglio gioventù.
C’è una frase, nel per ora «secolo brevissimo» di Sinner, che mi piace incorniciare. Quella riferita ai genitori: «Li ringrazierò sempre perché mi hanno lasciato libero di scegliere». L’Apriti Sesamo della vita. Tutto (ri)nasce lì. Non mamme o papà ultrà; non parenti così stretti da diventare cappio al collo,
agenti più o meno segreti e invidiosi, invadenti. Tutto (e tutti) il contrario: lasciar partire senza lasciar andare, pronti a subentrare in seconda battuta, «se».

Non siamo più ai piedi della montagna, non siamo ancora vicino alla vetta, tanto per usare una metafora cara alla sua geografia, ma il sentiero è giusto; e la piccozza, tosta. Giorno verrà che, magari, non saprà essere altrettanto sereno come a Montecarlo, quando non gli chiamarono out una palla nettamente fuori che avrebbe cambiato il destino della semifinale con Stefanos Tsitsipas. L’anca destra, quella su cui carica il diritto, necessita di revisioni continue, e gli ingorghi di calendario non aiutano, stipati tra una comparsata pubblicitaria e l’altra. Prendete le nuotate con Anna Kalinskaya, lette e tradotte in base ai risultati o alle astinenze da essi: strega, nei periodi down; crocerossina, nei periodi up. «Una volta c’era lo scemo del villaggio; oggi, con il Web, c’è il villaggio degli scemi»: è di Rosanna Marani, la trovo splendida.
Sinner, cioè peccatore (dall’inglese). Dolce, come la dedica americana alla zia malata. Spietato, come il licenziamento in tronco del preparatore atletico Umberto Ferrara e del fisioterapista Giacomo Naldi, quello del massaggio con il ditino fasciato.
Ricomincia, il viaggio, dagli Internazionali di Roma. Sinnermania, Sinnerfobia. Adelante, con juicio.
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