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Prendersi cura, affrontare la trasformazione e l'assenza: l’esperienza del caregiver in oncologia.

Spalla BN
 
IL CAMBIAMENTO
 
“Sento il peso
di dover tenere insieme tutto,
di dover conciliare
la malattia di mio marito
e le questioni lavorative.
Mi sono sempre imposta
nelle decisioni importanti,
mentre mio marito
si è sempre fatto trascinare.
Ora vorrei che qualcuno
potesse prendere le decisioni
al posto mio”.
 
Di: Claudia Lanza, Carola Grimaldi, Serena Villa, Sabrina Scuto,
      Martina Coppola, Giorgia Frunzi, Ludovica Giacalone, Marco Gonella
 
“Cosa cambierà in me diventando caregiver?”
Assistere una persona malata di cancro non è mai un compito leggero. L’assistenza può diventare un’esperienza profondamente stressante, con conseguenze significative sia sul piano psicologico che corporeo. Assumere il ruolo di caregiver, infatti, implica farsi carico di molteplici impegni pratici-assistenziali che possono variare nelle diverse fasi del percorso di cura. Alla diagnosi, il caregiver condivide con il paziente lo shock e l’angoscia iniziali, cercando risposte e informazioni, accompagnando il paziente nella ricerca frenetica di strutture e terapie adeguate, cercando di sostenerlo nell’iter degli approfondimenti diagnostici. Durante il trattamento, il caregiver si trova spesso a dover rivoluzionare la propria vita: può rinunciare al lavoro, ridurre le relazioni sociali e concentrare tutte le energie sull’assistenza (Bolis et al., 2008).
Il caregiver può doversi adattare a cambiamenti nell’interazione con sé e con l’altro e gli può essere richiesto di avere la capacità di comprendere e riflettere su tali stati mentali in trasformazione. Questa capacità, definita “mentalizzazione”, può risultare un fattore protettivo nell’esperienza di caregiving, tuttavia, è possibile che l’impatto di una diagnosi di tumore interferisca con tale capacità, facendo sì che la comunicazione degli stati d’animo venga evitata o distorta, rendendo più complesso per il caregiver pensare in modo flessibile ai propri e agli altrui vissuti.
 
Frequentemente la sofferenza dei pazienti e dei caregiver può manifestarsi attraverso una ridotta possibilità di regolare i propri stati emotivi e fisiologici (Schore, 2022).
Finestra Colori
È possibile che il profondo malessere psicologico conduca all’utilizzo di un funzionamento mentale in cui non si fa uso del linguaggio per esprimere il dolore, ma di espressioni psicosomatiche (Granieri et al., 2018). Le ricerche condotte su caregiver oncologici confermano una reazione fisiologica di attivazione in risposta ad uno stress acuto, già nelle prime fasi della malattia (Teixeira et al., 2019). In questo stato di allerta, può diventare difficile dare voce ai propri stati affettivi che dunque possono essere vissuti sotto forma di sintomi corporei: irritabilità, insonnia, difficoltà di concentrazione, palpitazioni (Granieri et al., 2018). La letteratura sul cancro definisce “traumatica” la condizione del caregiver impegnato nel difficile lavoro di integrazione ed elaborazione di emozioni come paure, ansie, disperazione, sensi di colpa, vergogna e rabbia per una diagnosi terribilmente ingiusta (Guglielmucci et al., 2018). I caregiver, quando incapaci di esprimere a parole gli intensi stati emotivi provati, possono adottare comportamenti di ritiro emotivo e sociale, con il rischio di ammalare la propria rete sociale e isolarsi. Tra le strategie più comunemente utilizzate, infatti, riscontriamo l’evitamento e la negazione di aspetti della realtà troppo dolorosi che talvolta possono condurre ad un ritorno a forme più primitive di funzionamento (Nesci & Squillacioti, 2013) con il tentativo di allontanare dalla mente emozioni connesse alla morte (Bonafede et al., 2020; Granieri & Borgogno, 2014).
 
“Come cambierà la percezione di me e della mia relazione con l’altro?”
I caregiver possono sperimentare nei confronti della persona cara di cui si prendono cura e di sé stessi che “niente è più come prima”. Dall’esperienza clinica in oncologia si osserva che i caregiver di pazienti oncologici, spesso riportano con rabbia e aggressività, un cambiamento nei loro cari dopo aver ricevuto la diagnosi, lamentando, ad esempio, la difficoltà a trovare motivazione nello svolgere le normali attività quotidiane (Guglielmucci et al., 2018).
 
Flebo“Lui è diventato pungente, sembra un istrice, devi fare attenzione ad avvicinarti. Si rintana come sempre, ma adesso ancora di più. È inquieto e non ne parla e a volte io penso che non posso farmi travolgere dalla sua inquietudine perché ho già la mia. E poi odio questa cosa che non smetta di fumare, questo dipende solo da lui”.
 
È possibile che il caregiver stesso riferisca di sentirsi “diverso” dalla persona che era prima dell’arrivo della malattia. Se, da un lato, questa sensazione di aver perso o trovato qualcosa di nuovo di sé può spaventare, dall’altro può anche indurre ad una ridefinizione di sé stessi in cui recuperare centralità nella propria esperienza personale (Ambrosiano, 2021).
 
“I ruoli si stanno invertendo. È sempre stato lui il punto di riferimento della famiglia, ora invece sento che lo sto diventando io. Vorrei che lui si abbandonasse a questo cambiamento e che accettasse che io non pretendo nulla di più da lui”.
 
I profondi cambiamenti spesso richiesti dal caregiving a lungo termine possono condurre ad una riorganizzazione del concetto di sé e all’assunzione di un nuovo ruolo. Al contempo quando i caregiver si concentrano completamente sui bisogni dei destinatari delle cure, la loro identità assistenziale può portare alla negligenza di altri ruoli finora ritenuti importanti (Broady, 2017). Quando i compiti di cura diventano totalizzanti è possibile che l'intero senso di identità del caregiver venga radicato nel solo ruolo assistenziale, rischiando di trascurare i propri bisogni e ilComprensione proprio benessere. L’essere iperprotettivi nella relazione con il paziente potrebbe rappresentare un tentativo di rassicurare sé stessi rispetto all’ansia di abbandono e alla paura della perdita del proprio caro. Tuttavia, alcuni caregiver possono accogliere questo ruolo considerandolo una dimostrazione d’amore per il proprio caro che restituisce un senso di coerenza identitaria personale (Broady, 2017).
Dall’esperienza clinica in oncologia è stato possibile osservare che non tutti coloro i quali vengono designati come caregiver riescono a identificarsi con questo ruolo. Tra le varie motivazioni di tale mancanza di accettazione dell’assunzione del ruolo possiamo ipotizzare una resistenza da parte dell’individuo a ripensarsi in nuovi assetti interni e relazionali.
 

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